Milano Distilled Episodio 5 – Blanco

La piazza davanti al Blanco, al mattino, sembra enorme. Tentano di riempirla i tavolini, e qualcuno che passeggia con i cani, che ci passa in bicicletta. L’ombra è garantita dagli alberi, quando la stagione è propizia. Se il tempo fa bello, allora già dalle prime ore del giorno c’è chi si ferma a bere un caffè e mangiare un cornetto. Si prosegue in pausa pranzo, sullo stesso copione. La sera no. La sera cambia tutto. Dopo la mezzanotte scatta l’ora di punta. Il Blanco si individua ancora, tra le migliaia di teste, di voci, di corpi. Si parla, si beve, a volte si balla. Adriano Russo è uno dei soci fondatori, che sono quattro, ognuno proveniente da un mondo diverso che non è quello della ristorazione, né food & beverage. «Ognuno di noi si portava dietro una community diversa, volevamo creare qualcosa di differente dal panorama». Un’innovazione in una scena notturna che era ancora troppo divisa in bianco e nero. Dice: «Fino al 2008 c’erano bar tendenzialmente monocromatici: o cocktail bar, o bar verticalmente gay. Noi abbiamo voluto unire queste due cose».

«L’idea era di Fabio Covizzi, lui ha fatto un po’ la storia di Milano perché è quello che fa tutta la security delle sfilate di Milano. Ma quando sei alla porta da tanti anni poi praticamente diventi anche un pr. E lui vent’anni fa ha aperto Blanco Formentera, ed è esploso. Ci andavano Bertelli, Miuccia Prada… E da lì è nata l’idea di aprire Blanco Milano». Per dieci anni Blanco Milano, stella caotica in una notte altrimenti tranquilla dietro il commissariato di Porta Venezia, è uno dei cosiddetti “preserata” più frequentati. Si arriva qui per una pausa prima di spostarsi nelle discoteche vere e proprie, quando la nightlife di Milano è più viva che mai. Poi, spesso e volentieri, succede che non te ne vai, e che ci rimani fino alle tre del mattino.

Dodici anni di attività sono tanti, e le identità non possono rimanere invariate: Adriano racconta: «È cambiata un po’ la zona, è nata la Porta Venezia di adesso, e anche il bar si è un po’ trasformato, ma mantiene ancora quell’identità». Giusto così, dopotutto. I posti sono come le persone: «Il dna di un locale lo fanno soprattutto i proprietari»