Match Day with Henry Big

Enrico Grosso aka Henry Big – Intervista

Enrico Grosso, conosciuto anche come Henry Big, è un tattoo artist italiano con base a Brooklyn, New York.
Dopo aver lasciato la sua città natale nei sobborghi di Torino, ha vissuto per un bel po’ tra Londra e Manchester prima di trasferirsi nella Grande Mela. Le sue giornate a New York si dividono tra il lavoro al Greenpoint Tattoo Parlour e le partite di calcio a McCarren Park, o qualunque altro campo disponibile, con il gruppo creativo del Secret Fútbol Club. Interista sfegatato, ci siamo seduti con Henry per farci raccontare come si prepari per le partite di cartello e cosa sia il calcio per lui. 

Ciao Henry! A che età sei diventato un tifoso di calcio e come hai scelto l’Inter, la tua squadra del cuore? 

Non è facile individuare un momento preciso. Il calcio per me è un po’ come il disegno, non riesco a ricordare un momento in cui non abbia fatto parte della mia vita. Ho una foto con mio fratello nel cortile di casa, avrò avuto sette anni, indossavo i colori della mia squadra, nero e azzurro. Quella foto viene fuori ogni volta che devo provare ai miei amici che sono Interista da sempre, come mio padre e mio nonno prima di lui. Non so perché abbiano proprio scelto l’Inter, forse perché negli anni ’60 era fortissima!

Che cos’è per te il calcio?

Bella domanda. Innanzitutto per me è famiglia. Ora poi, non vivendo più in Italia da quasi dieci anni, è diventato anche sinonimo di casa, con un tocco di nostalgia. Ma è anche un modo per creare un contatto, un ponte immaginario tra le persone. Ho ricominciato a giocare di recente, ero fermo da anni, ed è fantastico. È come se qualcuno mi avesse improvvisamente spalancato una porta dietro la quale ho trovato una comunità fantastica che non avevo idea esistesse qui, a New York.

Ora come ora, ma direi da sempre, il calcio organizzato non sta attraversando un momento facile, ma è solo uno dei suoi aspetti. A livello locale invece si è riusciti a fare un sacco di cose buone. Il calcio in primo luogo è comunità, inclusività, creatività, opportunità, un modo sano per reagire ai problemi. Per me è sempre stimolante veder nascere progetti ed iniziative umanitarie basate su questo gioco.

Raccontaci la tua tipica giornata di quando gioca l’Inter. Dove guardi la partita?

Dipende a che ora è (ride). Se giocano la mattina posso anche guardarla a casa, ma se è di pomeriggio o sera allora preferisco andare in un bar, da solo o con amici, per condividere l’esperienza con altre persone, non importa se sono tifosi dell’altra squadra. È un bel modo per conoscere altra gente dall’Europa ed è sempre una bella sorpresa  incontrare un tifoso su questo lato dell’Atlantico. Di solito, qui a Brooklyn, vado al Banter Bar. 

Come ti prepari per vedere la tua squadra?

Non faccio niente di particolare anche se, essendo piuttosto superstizioso, per scacciare la sfiga mi assicuro di compiere alcuni piccoli rituali che, ovviamente, non posso rivelare altrimenti me la gufo da solo!

Nessuna abitudine significativa?

Ho una maglia dell’Inter, tra le tante che possiedo, che ho trovato tanti anni fa a Parigi, in un negozio vintage. Di solito la indosso durante le partite, o comunque la porto con me.

E come festeggi una vittoria? 

Di solito chiamo a casa! Non c’è niente di più bello che condividere con i miei genitori una soddisfazione così specifica. In quel momento è bellissimo essere in contatto con la gioia di persone con le quali condividi anche le delusioni.

Qual’è il ricordo più bello che l’Inter ti ha regalato fino ad oggi?

La vittoria del triplete con Mourinho nel 2010. Non c’è niente di paragonabile a vincere la Champions! Ho un bel ricordo, anche se  vago, di quando abbiamo vinto lo scudetto nell’89, avevo sette anni. Ho una foto di quel giorno, con me che sventolo la bandiera. E poi quando l’Italia ha vinto il Mondiale nel 2006, è stata un giornata da pazzi, incredibile.

Se l’Inter fosse un distillato?
Non so spiegarti perché, ma ti direi il Tequila.