Conversation at bar 9 – Alessandro Longhin

Burger, poké, Gin Tonic. Per ognuna di queste parole, oramai parte integrante del nostro quotidiano, ci sono decine di progetti falliti caduti nel dimenticatoio. Qualcuno ricorda i ristoranti australiani? Ecco, nessuno. È interessante quindi trovarsi con un imprenditore della ristorazione come Alessandro Longhin che, dopo il successo di Botanical Club, da tre ani sta guidando Chihuahua Tacos, il suo nuovo progetto fast casual che sta conquistando Milano. Lo raggiungiamo il giorno prima l’apertura del nuovo ristorante in Via Sciesa, una nuova scommessa all’insegna del sapore.

Ciao Ale, siete pronti?
Dopo Col di Lana e Sarpi, andiamo a coprire una zona nuova molto interessante, anche dal punto di vista del delivery, per l’alto tasso di densità a livello di resident e la vicinanza di università, IED e l’area di via Fiamma, dove sono in corso nuove aperture molto belle. Daytime abbiamo tanti uffici, il tribunale, gli showroom. Le prerogative dovrebbero esserci, vediamo se la verità ci darà ragione.

Come nasce Alessandro Longhin, imprenditore della ristorazione?
Vengo da un percorso abbastanza atipico. Dopo dodici anni a livello corporate con un po’ di brand nel mondo della moda, della comunicazione e degli eventi, sono uscito da Trussardi, dove gestivo comunicazione ed eventi e coordinavo il lavoro con Andrea Berton per quanto riguardava Il Ristorante Trussardi alla Scala e Café Trussardi, e ho cominciato a fare il consulente. Tra i clienti il governo tailandese per il quale, con Paolo Marchi e Identità Golose, ho lavorato a progetti per promuovere la cucina thai in Italia. L’asse si è spostato da eventi e moda a cibo e beverage dove ho mutuato due principi fondamentali dalle mie esperienze precedenti: tensione continua alla ricerca di nuovi stili e modelli di consumo, e grande attenzione al dettaglio, alla componente esperienziale, aspetto da sempre trascurato nella ristorazione italiana con piatti buonissimi serviti da camerieri sbagliati in ambienti sbagliati. La cosa più importante che ho voluto trasferire sui locali è il feeling, sempre molto piacevole, understated, per un’esperienza di grande genuinità e immediatezza. È quella la grande scommessa, costruire luoghi belli da vivere con trasporto. Non dobbiamo mai dimenticare che la gente esce a mangiare e a bere per divertirsi ed essere a proprio agio. Con questi principi nel 2015 ho lanciato Botanical Club, la cui grande uniqueness è stata avere la prima licenza per distillare il nostro gin, Spleen et Idéal, nel nostro primo locale in Isola, arrivando ad aprirne tre. Nel 2019 ho ceduto le mie quote per lanciare Chihuahua Tacos, un’idea che tenevo nel taschino da un po’ di tempo.

Come sei passato dall’esperienza più raffinata di Botanical, legata a un certo modo di vivere il cocktail, a una più immediata come Chihuahua Tacos? Hai visto un trend?
Dal punto di vista del cosa è molto diverso, il come no. Il fil rouge di tutte le cose che ho fatto è la dicotomia ricerca e studio. È facile viaggiare all’estero, trovare cose che funzionano e dire: “Cavoli, a Milano manca totalmente la scena Viet, apriamo!” In realtà, quando intercetti qualcosa che funziona in un altro Paese e vuoi trasferirlo in Italia, dove le barriere al nuovo sono molto alte, devi farlo al momento giusto. Botanical Club è diventato un progetto on trend perché arrivava proprio quando in Spagna e Inghilterra esplodeva il fenomeno gintonerie. Era nell’aria che sarebbe diventato importante anche qui. La scelta del taco è stata dettata proprio da questo principio. È entrato trasversalmente nel menù dei ristoranti, fatto da Karime Lopez con Buttura fino a Tipografia Alimentare, e noi intercettiamo un trend in arrivo. Le taquerie sono i nuovi luoghi divertenti da frequentare nel mondo. Uno dei motivi per cui ho deciso di lanciare Chihuahua è che il pubblico delle provincie è abituato fin dagli anni ’80 a due sole cucine etniche, cinese e Tex-Mex. Se apri un taco bar in provincia, e l’intenzione c’è, parliamo di qualcosa che, a differenza del coreano o del peruviano, è già presente nel palato delle persone. Ovviamente c’è bisogno di tanta comunicazione ed educazione su cosa è veramente il taco, sono abituati a ordinare le fajita con i fagioli…

Come si educa senza pregiudicare la piacevolezza dell’esperienza? Difficile non risultare presuntuosi con un pubblico talmente abituato alle quesadillas surgelate da non saperne riconoscere una vera quando se la trova davanti…
Il tone of voice è molto importante. L’ultimo messaggio che voglio dare è quello di chi sale in cattedra e dice: “Sfigati, non avete capito un cazzo. Se volete mangiare messicano dovete mangiare questa cosa qui, fatta in questa maniera”.

Ce ne sono posti così.
Tanti. Il nostro approccio si innesta proprio nella creazione di esperienze, di una comunità forte dove il messaggio arriva da solo, dopo. Cominci a raccontare, anzi, a rispondere alle domande che ti vengono fatte, ed è la cosa migliore che ti possa succedere. Non mi interessa convincerti che il cibo sia autentico, voglio conquistarti con la bontà dell’esperienza del prodotto, che la prossima volta tu mi dica: “Da Mexicali mangio parilla e fagioli, con voi invece faccio un’esperienza gastronomica con dietro una cucina, un ragionamento”. Nella nostra comunicazione parliamo di artigianalità, prodotto fresco. Serviamo cose buone in modo informale. Con un nostro vassoio di taco mangi tanto quanto un burger gourmet, che però digerisci in otto ore. Da noi invece sei leggero, puoi venire anche due, tre volte la settimana, è un concetto che passa subito e porta un’alta fidelizzazione. Mangi tante verdure e le nostre tortilla, che sono il 50% del taco, sono artigianali, di mais nixtamalizado, non di maseca come le altre, con un corpo e una texture incredibili. Annusane una e sentirai note di miele, fiori di campo.

Il vostro visual comunica la messicanità in maniera raffinata e ricercata.
Non siamo un ristorante etnico che propone un’idea caricaturale del Messico fatta di scheletri, Frida Kahlo e sombrero. Andiamo in profondità sulla cultura messicana con richiami alti, come i nostri colori, rosa e arancione mega saturati, presi da Luis Barragán, o il logo con il colima, l’antenato azteco del Chihuahua.

Com’è il consumo nei tuoi locali e che percezione c’è per tequila e mezcal?
Li conosco bene, la mia famiglia ha vissuto vent’anni in Messico. Il tequila è un distillato affascinante e, a parte alcune etichette, interpreta un’artigianalità molto tangibile, forte. Dal punto di vista della digeribilità è un gran distillato, l’hangover è uno dei migliori perché, al contrario di quasi tutti i distillati , nella produzione non si usa zucchero. In Italia è sempre stato visto come un liquore da festa con un posizionamento basso, come la cucina messicana, molto popolare ma conosciuta e consumata in maniera sbagliata, ignorandone completamente benefici e peculiarità. Il lavoro che facciamo con cibo e distillati è molto simile: in entrambi i casi prevede educazione, formazione e posizionamento. Siamo contenti che in Italia la cucina messicana sia considerata più familiare rispetto ad altre, allo stesso tempo però dobbiamo modificare una mentalità sbagliata nei suoi confronti. Per il tequila, e poi il mezcal, i grandi brand, complice anche il mega-trend arrivato dall’estero, hanno fatto un gran lavoro creando una cultura che ha contribuito tantissimo nel riuscire a venderli e raccontarli correttamente. Quando un cliente chiede un tequila ne parliamo con lui, gli chiediamo se lo conosce, spieghiamo come viene prodotto, come si degusta, guidandolo nell’individuare le note e gli abbinamenti. La volta dopo magari gliene facciamo assaggiare uno più robusto, più affumicato, creando curiosità e conoscenza.

Come hai sviluppato la parte gastronomica di Chihuahua?
Samuele Lué, executive chef nonché mio socio in Chihuahua, ha lavorato molto a New York da Momofuku, con David Chang. Il suo approccio alla ricerca, all’autenticità delle ricette, ha quel twist metropolitano della cucina mega-local che volevo per i miei taco, come quelli che troveresti in una taqueria di LA o New York con una contaminazione bella, autentica. Se assaggi i nostri taco capisci esattamente cosa voglio dire.

Eugenio Roncoroni di Al Mercato, dopo il Taco Bar, ha chiuso anche il Noodle Bar di Viale Bligny. Tra le cause proprio la difficoltà da parte del pubblico con una cucina asiatica autentica. Lui e il compianto Beniamino Nespor sono stati dei veri e propri precursori.
Li ho sempre stimati moltissimo per le loro intuizioni, la dedizione alla ricerca e allo studio, però alcune aperture, seppur con modalità fighissime, sono arrivate nei momenti sbagliati, troppo avanti per una piazza ristretta come Milano. Senza un certo tipo di approccio al controllo della gestione, facevano fatica. Per una serie di vicissitudini il loro progetto è un po’ cambiato, ma penso che Eugenio, cedendo parte dell’azienda a un investitore, abbia fatto la scelta giusta per concentrarsi sulla visione creativa e di sviluppo dei punti vendita. Prima dell’Expo la scena food di Milano era di una noia mortale ma negli ultimi dieci anni si è rinnovata in maniera pazzesca, con una componente indipendente non è più sostenibile nelle altre capitali economiche europee senza un fondo alle spalle. Qui riesci ancora ad aprire in centro storico, garantendo la diversificazione delle insegne che ne compongono un po’ il fermento.

Esiste un futuro per la ristorazione indipendente?
I locali dovranno cambiare modalità a livello di sostenibilità e, come in altri ambiti, a faticare sarà la fascia di mezzo. I progetti indipendenti, oggi come oggi, sono altamente credibili, ricercati e sostenibili perché possono avere controllo e gestione molto più accurati. Oggi è impossibile che un piccolo progetto vincente possa esplodere e diventare una rivelazione a livello di aperture. Se vuoi fare fast casual devi partire già con un’impostazione precisa. È importantissimo mantenere un’identità e un’anima le più autentiche, indipendenti, genuine e fresche possibili, formatizzando sempre più il modello per essere snelli nelle operazioni di replica, che poi è quanto stiamo facendo noi. Produciamo tutto in un laboratorio totalmente artigianale e abbiamo un’implementazione tecnologica importante, con delivery autonomo, un sistema di self-ordering dal tavolo e un software di gestione degli ordini alla cucina disegnato da noi che impiega monitor con informazioni temporizzate invece delle stampanti. Bisogna stare al passo dei tempi, facendosi aiutare dalla tecnologia. Fare ristorazione in una certa maniera è ancora possibile ma se non si abbatte il costo del lavoro, anche se il nostro è un progetto molto umano, dovremo per forza cercare di farci aiutare dalle macchine.