Conversation at Bar 7 – Lorenzo Ferraboschi di Sakè Company

Conversation at Bar 7 - Lorenzo Ferraboschi di Sakè Company

Se oramai la cucina giapponese è riuscita a legittimarsi in maniera importante e duratura, anche su una tavola poco aperta alle novità come quella degli italiani, altrettanto non si può dire del sake. Pur essendo l’Italia il secondo più grande importatore in Europa di questa bevanda millenaria, ancora oggi viene spesso trattata come qualcosa di esotico, di folkloristico, bevuta distrattamente mentre si consuma una cena a base di sushi o ramen. Le cose stanno però cambiando, sempre più player globali del lusso stanno lanciando produzioni di sake di prestigio e, per capire meglio a che punto ci troviamo oggi, non siamo dovuti andare fino a Tokyo, anche se non ci sarebbe dispiaciuto. Ci è bastato invitare per un drink e una chiacchierata Lorenzo Ferraboschi, uno dei massimi esperti italiani in materia e ambassador, con la sua Sake Company e la Sake Sommelier Association, di un nuovo modo contemporaneo e competente di gustare il sake.

Ciao Lorenzo, cosa bevi?
Se non sono in mood sake, d’inverno probabilmente berrei un Vieux Carré, un cocktail della famiglia dei Manhattan, un po’ torbato. Ha un sapore importante ma non troppo. D’estate invece Daiquiri, molto più fresco e citrico. Se prendo un sake lo bevo in un calice da vino bianco al quale, coi suoi 15-16 gradi, è un’ottima alternativa. Poi dipende dal sake, su quello sono un po’ pignolo…

Non fosse così non saremmo qui a parlarne con te.
Cosa ti ha colpito del sake? Il mercato italiano è uno dei primi mercati in Europa in assoluto, ma il pubblico lo conosce e lo capisce ancora poco.

Il sake è come una cipolla, lo scopri strato dopo strato. È molto complesso ed è difficile capirlo fermandosi alle prime impressioni. Ho abitato dieci anni in Giappone e, quando vivevo li, bevevo serenamente e tranquillamente sake, non dico tutti i giorni ma, insomma, quando c’era occasione. Però non lo conoscevo, non avevo idea di cosa stessi bevendo. Mi occupavo d’altro, disegnavo cellulari, MP3 player. Quando sono tornato in Italia non tanto facile trovare sake, ormai mi ero abituato a berlo, mi piaceva, ma non me ne intendevo e così ho iniziato a studiarmelo. Mia suocera ogni tanto mi mandava casse da sei bottiglie, importate in un modo o nell’altro. Poi, nel 2013 o 2014, ho realizzato che stava per arrivare l’Expo di Milano e ho detto “come lo beviamo noi, ci sarà qualcun altro che abbia voglia di bere sake”. Ne ho ordinato un pallet, male che vada me lo sarei bevuto da solo, erano cinquecento, seicento bottiglie, ci avrei messo qualche anno… Abbiamo iniziato a girare tra gli amici ristoratori giapponesi e abbiamo scoperto che non lo compravano facilmente perché neanche loro sapevano bene cosa fosse. Non tutti i giapponesi si intendono di sake, come qui da noi in Italia non tutti sono cintura nero di vino, no? E da lì è nata la connessione con la Sake Sommelier Association. Il successo del sake in Italia nasce così, spiegandolo non solo ai consumatori ma, in primis, a chi poi lo propone.

Se il Giappone ha una peculiarità è quella della cura dei dettagli.
Hanno una forma mentis sulla precisione molto, molto forte che si estende a tutto, riso compreso. Se il popolo Sámi, i lapponi per intenderci, hanno oltre 200 parole per fare riferimento alla neve, in Giappone ce ne sono un’infinità per descrivere il riso. Non amo fare paralleli tra sake e vino ma, come esistono centinaia di tipi d’uva, così vengono usate centinaia di tipologie diverse di riso per fare il sake, e cambiano a seconda della latitudine, dell’umidità e della storia della regione in cui viene coltivato. In alcune ha un sapore molto più secco e i sake prodotti vengono molto più secchi, in altre invece sono molto più pomposi, opulenti. Il sakamai, così si chiama il riso utilizzato per fare il sake, è un riso diverso da quello che si usa per essere mangiato.

Parlaci della sua lavorazione.
Il sake nasce dalla fermentazione del riso e funziona meglio al freddo, che facilità il processo, non è un distillato. Per produrlo si interviene sul taglio del singolo chicco di riso, un processo chiamato sbramatura, durante la quale, con grande attenzione, ogni chicco passa in una macchina che rimuove quanto più possibile della sua parte esterna, riducendolo ad un cuore. “Sbramato al 70%” vuol dire che il 70% del chicco rimane mentre il 30% viene tolto. Man mano che ti sposti verso l’esterno del chicco si abbassa la percentuale di amido mentre quella di grassi, proteine e minerali cresce, creando forza nel gusto.
I sake più indicati per i cocktail sono prodotti con chicchi meno sbranati. Costano meno ma sono più presenti in gusto, sono più forti. Al contrario, quando lavori tanto il chicco, questo si riduce quasi totalmente ad amido puro. Si ottiene un sake quasi etereo, importante a livello di retrosapore, persistente, ma il cui impatto scivola via, ideale per cibi che non hanno bisogno di grande forza.

Tipo il pesce…
Esatto. Se mangi sushi spendi tanto di sake, quando mangi carne invece poco.

Come vedi l’ingresso di un pezzo da novanta dello champagne come Richard Geoffroy, ex chef de cave di Dom Pérignon, nel mondo del sake con il suo IWA5? Geoffroy è il primo ad aver applicato il principio dell’assemblaggio, tipico della produzione dello champagne, fino ad oggi inedito nel mondo del sake.
Sì, sì, l’assemblage dello champagne. Dallo champagne era già arrivato à Régis Camus con il suo HeavenSake, che però è un sake prodotto con tre tipi diversi di riso. In verità da sempre ci sono tipologie di sake assemblati.

Davvero? Sfatiamo il mito allora…
C’è un tipo di produzione che le cantine, le sakagura, destinano al consumo locale, il Futsushu, letteralmente sake da tavola. Viene prodotto principalmente in due modi. Il primo è “derogando” dal disciplinare, producendone grandi quantità, diciamo alla buona. Il secondo, più etico, deriva dalla produzione di sake premium, non da tavola. Il prodotto avanzato dall’imbottigliamento, viene unito ad altri sake premium avanzati e il blend che ne consegue diventa anche questo Futsushu. Chi lo consce, definisce il Futsushu come “il miglior sake, al miglior prezzo, in quella zona” perché il suo prezzo è una media di tutte le produzioni di quella cantina. Tornando ad IWA, l’aspetto peculiare è che Geoffroy ha realizzato dei sake ad hoc da miscelare con il risultato finale già in mente, IWA5.

C’era una progettualità fin dall’inizio.
Si, a modo loro sono entrambi champagne. Da sempre, nelle sakagura in cui si fanno sake invecchiati, c’è un blender che unisce lotti di anni differenti. Tipicamente, i blend di sake invecchiati sono di 3 e 8 anni, o 5 e 15 anni.

Esistono invecchiamenti canonici per il sake? 
Prima degli anni ‘70 si pagavano le tasse quando si produceva, quindi nessuno invecchiava mai perché ti ritrovavi con un capitale immobilizzato sul quale avevi già pagato le tasse. Poi è cambiata la legge, e si è iniziato a tassare la produzione al momento della vendita e da quel momento c’è stata una crescita di invecchiamenti e ora chi invecchia, tendenzialmente, invecchia tanto.

Ma il sake regge l’invecchiamento?
Puoi invecchiare tutti i tipi di sake, dai tre anni in su sono invecchiati, lo lasci lì e invecchia, non va a male, ma cambia. Sull’etichetta trovi indicata la data entro la quale consumarlo per per garantirti di avere quello che c’è scritto sull’etichetta, a livello di sentori, sapori e aromi. Se vai oltre non trovi più quelle caratteristiche, ma ne trovi altre.
Quindi, se prendo un Junmai Daiginjo, sake aromatico, che tendenzialmente è elegante, persistente, molto rotondo, glicerinato, e lo lascio in cantina 10 anni, sicuramente perderà i suoi sapori aromatici prendendo invce quelli dell’invecchiamento.
Di sake di invecchiamento ce ne sono che possono andare dai 3 anni in avanti. Oltre i 3 anni, si dice che il sake è invecchiato.

Come sei arrivato in Giappone?
Mi sono trovato nel posto giusto al momento giusto. Studiavo al Politecnico di Milano e, casualmente, sono passato nell’ufficio estero dove lavorava un’amica. Mentre ero li è arrivato il fax per un bando lanciato da un’azienda giapponese: cercavano due designer freschi per disegnare showroom a Tokyo. Ho mandato la mia candidatura, gli piacque e mi hanno assunto. Arrivato a Tokyo e fatto quel progetto mi hanno offerto di rimanere.

La tua avventura di evangelista del sake inizia però al tuo ritorno in Italia. Cos’altro hai portato con te dal Giappone?
Mia moglie è giapponese, a casa parliamo in giapponese… c’è tanto Giappone a casa nostra. Dopo 10 anni laggiù la mia visione del mondo si è un po’ nipponizzata, nel bene e nel male. Adoro il Giappone, lo odio e lo amo. Certo, ho superato l’infatuazione iniziale, quella prima fase di totale innamoramento in cui cammini per Tokyo e sei sempre a bocca aperta perché quella città effettivamente è una gran figata. Capisci mille cose, non esiste uno stato perfetto.

Come le relazioni.
Esatto. Anche se il Giappone è diventato un pezzo indispensabile della mia vita, abbiamo deciso di vivere in Italia.

Ti faccio un’ultima domanda: Cobra Kai o Miyagi-Do? 
Beh, sicuramente sono da parte del maestro Miyagi per la sua correttezza, la disciplina. Noi italiani abbiamo questa approssimazione innata, che a volte ci aiuta a risolvere i problemi, ma quando andiamo a vivere in Giappone scompare per la disciplina, un elemento del carattere giapponese che mi piace molto. Ti aiuta a livello di ordine mentale, a non sbagliare e oggi, ancora di più, a vivere con ordine e rispetto la mia nuova vita da italiano in Italia.