Conversation at bar 4: Mattia Zoppellaro

mattia zoppellaro

Trovandoti vis-à-vis con Mattia Zoppellaro capisci subito perché lui sia uno dei più grandi ritrattisti italiani contemporanei.

Affabile e acuto, Mattia ha la capacità di entrare immediatamente in sintonia con chiunque incroci i suoi occhi attenti, non importa tu sia Mr. Dee Still o una delle tante celebrità, tra Wes Anderson, Zlatan Ibrahimovich, Sfera Ebbasta e Federica Pellegrini per citarne alcune , che ha ritratto per testate prestigiose come Rolling Stone, MOJO e L’Équipe. Nell’ottobre 2021 ha pubblicato Dirty Dancing, un racconto visivo del suo viaggio trans-europeo tra fine anni ’90 e il 2005 nel mondo raver e dei party illegali.

Per una volta dall’altra parte dell’obiettivo, si siede con noi al bancone del Turbo ed è subito come se ci si conoscesse da anni. Attraverso le sue foto, in un certo senso, è proprio così.

Ciao Mattia, cosa bevi?

Dipende molto da dove sono, dal bar, dal locale. Se sono in Veneto prima di pranzo vado con gli amici a farmi degli Spritz con Cynar. La sera invece vino bianco o rosso, a seconda della stagione. Mi piacciono molto i rossi della Valtellina, i vini minerali, che crescono in zone montagnose, carsiche, come l’Inferno e lo Sfursat.

Questa sera però siamo a Milano…

Milano è la patria del cocktail quindi… mi piacciono molto la variazione del Moscow Mule che fanno all’Elita Bar e il Vodka Gimlet di Zinc.

Al Rita bevo il loro Vodka Zen mentre al Tiki Room adoro lo Zombie, molto scenografico.

C’è stato un momento in cui hai iniziato a dire: “nella vita voglio fare foto”?

Quando ho visto la copertina di Listen Without Prejudice, l’album di George Michael. È uno scatto in bianco e nero del 1940 di Weegee, con migliaia di persone a Coney Island con le mani alzate, una foto senza tempo. Se prendi in mano l’LP originale ti ci perdi dentro, ogni persona nello scatto ha una propria storia. Guardandola ho capito che nella fotografia il fotografo non ha controllo, Weegee non l’ha pensata. Ho avvertito la collaborazione del fotografo con tutte quelle persone, catturando tutte le loro storie in un unico scatto, una particolarità della fotografia che altre discipline non hanno. Spesso una foto è un colpo di culo, ma bisogna saperlo cogliere. La fortuna aiuta gli audaci, ma tante volte è il caso a farla, soprattutto quando hai a che fare con le persone.

E quando hai capito che poteva essere davvero la tua via?

A Bologna, quando sono andato per caso al mio primo rave party. La scena raver mi interessava molto e ho deciso di fotografarla perché volevo conoscere meglio qualcosa che ho sentito subito mio, pur non avendovi mai partecipato prima, per sentirmi più a casa.

Un’epifania…

Sì, pur essendo un posto in cui non ero mai stato, una scena in cui non conoscevo praticamente nessuno, l’ho sentita come una sorta di presente, la cosa giusta al momento giusto.

Quale aspetto ti intriga di più?

Quando parlo di rave intendo feste illegali di techno con la k, non con la ch. La Goa, l’altra corrente più fricchettona, non faceva per me.

È stato un tutt’uno, anche perché trovo che sia stato l’ultimo movimento di controcultura ad aver avuto una sorta di umiltà a livello musicale, estetico e filosofico. L’approccio DIY (Do It Yourself), era molto punk: vai, occupi un posto, fai la tua festa e vai fuori dai coglioni.

Nei rave, o nelle feste come le chiamiamo noi traveller, c’era una sensibilità molto affine al punk, anche esteticamente: creste, piercing, pantaloni molto larghi, con le tasche, un immaginario molto Mad Max, con un appeal visivo pazzesco che ho sempre trovato estremamente sexy. Mi ha catturato subito.

In Dirty Dancing ne fai un ritratto più umano, quasi antropologico.

Mi piace la figura umana, per me è imprescindibile in una foto. Mi diverte avere a che fare con le persone. Nelle foto che ho fatto delle feste si può notare la vita, che poi è l’aspetto che cerco maggiormente di fissare. Voglio che una fotografia mi sorprenda e il modo migliore per fare questa cosa è fotografare la gente. Non puoi mai prevedere quello che farà una persona mentre la stai scattando. Quando poi vai a vedere le foto è un po’ come la mattina di Natale, quando eri bambino. Quando facevo ancora i rullini a contatto li portavo a development e poi li vedevo tutti assieme.

Ti capita di sapere subito di avercela?

Sì ed è per questo motivo che adoro la pellicola. Quando fotografi in digitale hai troppo il polso della situazione: guardi l’immagine, lo schermino e, diventando consapevole di un qualcosa che invece appartiene ad una fase totalmente diversa, spezzi la relazione con la persona che stai scattando. La fotografia si divide in due momenti altrettanto importanti: lo scatto e l’editing, e devono essere separati. Quando sono in studio cerco sempre di scattare senza computer, per certi lavori non puoi, ed entra in gioco il compiacimento. Come fai a dire a un musicista “no, le foto per la copertina del tuo album non te le mostro”? Il problema è che poi iniziano a dire “queste non mi piacciono, prova a farne una in cui sorrido” e sento l’obbligo di dover compiacere, la cosa peggiore per uno che, come me, fotografa le persone. Quando scatto non penso mai a nessuno, cerco solo di sentire me stesso e cosa voglio fotografare, cosa mi interessa veramente. Il mio è un lavoro molto egoista, non fotografo per denunciare, fotografo per conoscere. È il motore che muove la mia ricerca fotografica, la chiamo così. Mi piace la fotografia sociale, ma non la faccio, non mi interessa. Non voglio denunciare un qualcosa al mondo, voglio conoscerlo io il mondo, e lo faccio con la fotografia.

Le foto a volte mentono?

Una foto non può mai esprimere un’opinione, solo visioni. Credo sia stato Walker Evans a dire “Se in una foto c’è una persona con un cappello in mano, come puoi dire se il cappello lo stia togliendo o indossando?”

Come la foto di Carlo Giuliani con l’esintore in mano al G8…

Esatto, uso sempre l’esempio di Carlo Giuliani perché è reale. La lettura di quell’immagine ti fa capire come una foto non possa esprimere un’opinione. Guardandola una di destra dirà: “eh, ma stava per lanciare l’estintore”, di sinistra “hanno usato il tele, lo spazio era molto schiacciato e in realtà non era così vicino…”.

Potrebbe essere qualunque cosa, per cui quell’immagine non dice niente. Ma anche se tu ne vedi cento del G8 e mostri queste immagini a cento persone diverse, ognuno avrà la sua opinione. Se invece leggi un articolo di Feltri, piuttosto che di Travaglio, ti faresti l’opinione di Feltri o di Travaglio. Capito? Le parole danno un’opinione, le foto mai.

Prendiamo Il militare colpito a morte di Robert Capa. Per anni si è pensato che fosse una foto realistica mentre ora si è iniziato a pensare che sia completamente artefatta.

Alcune star hanno un’iconografia fotografica altamente caratterizzata: Keith Richards in una nuvola di fumo di sigaretta, Patti Smith con il gilet nero e la t-shirt bianca. Quanto è difficile fare una foto che non sia ovvia? Ti capita mai di dire “e ora cosa faccio?”

Eh sì, non è facile. La location è molto importante, se riesco chiedo ai miei soggetti di poterli ritrarre a casa loro, dove sono più naturali. Cerco poi di interagire il meno possibile, dando pochissime indicazioni. Mi piace ascoltare, soprattutto le persone creative. Poi certo, ci sono i soggetti, tipo appunto Patti Smith, che fanno sempre la stessa cosa e quindi chiedo loro di fare qualcosa, del tipo “puoi sederti? puoi spostare i capelli?” e di rubargli lo scatto mentre lo fanno, a tradimento, per trovare quella genuinità che mi piace nelle foto. Le più belle sono quelle che sovvertono l’opinione e la visione comune.Una delle più interessanti da questo punto di vista è il ritratto che Mick Rock fece ad Iggy Pop per la copertina dell’album Lust For Life del 1977.

All’epoca Iggy era appena uscito dall’eroina, di tutti i posti dove disintossicarsi Bowie l’aveva portato proprio a Berlino, la capitale europea dell’eroina, un vero paradosso. Mick Rock lo ha ritratto sorridente, sano, con indosso solo una semplice t-shirt nera quando all’epoca nell’immaginario collettivo era visto sempre incazzato, strafatto, con gli occhi a mezz’asta, tutto tagliato e ricoperto di burro d’arachidi , un vero disperato. Quella foto per me è una delle più belle della storia della musica perché sovverte l’idea che hai del personaggio Iggy Pop, per me è il modo in cui bisognerebbe sempre farle.

C’è un artista che hai ritratto con cui ti sei fatto una bevuta degna di essere ricordata?

La prima volta che ho fotografato Pete Doherty appuntamento alle 10 del mattino e lui si è presentato alle 7 di sera, si era appena alzato. La prima cosa che ha fatto è stata uscire dal tour bus, mi ha chiamato e poi mi ha detto: “Posso offrirti il ​​mio cocktail preferito?”. Ha preso un bicchierone di plastica e lo ha riempito completamente di vodka. Semplice ma efficace.