Conversation at Bar 3: Domenico Romeo

domenico romeo

Di nuovo al bancone del Turbo di Milano, in un tardo pomeriggio di gennaio, osserviamo il bar tender Daniele Trombelli preparare diversi French-Italian con cura e perizia ipnotica. Optiamo per un Adonis: sherry, vermouth rosso e orange bitter, voglia di calore e sapori invernali. Davanti a noi Domenico Romeo, artista, ma anche graphic designer, che ha portato il misticismo e gli archetipi della sua terra d’origine, la Calabria, nel mondo dell’arte contemporanea con le sue tele abitate da calligrafie fantastiche e The System, una serie di brutali sculture in ferro, presentata al pubblico nel settembre 2021 con la sua mostra personale Axis-Anime armato.

Ciao Domenico, cosa bevi?

Un Campari Shakerato.

È il tuo drink?

No, vario molto, a seconda del momento. Bere è un momento di convivialità, di scambio. Di solito inizio sempre con del vino bianco per poi salire fino ad un Moscow Mule o un altro cocktail. Mi piace bere, non mi intendo più di tanto di distillati e vini, un mondo che si sta espandendo sempre di più, ma vorrei approfondire. Mi piace sapere cosa scelgo e seleziono molto. Sono fatto così, studio ogni cosa che faccio e non lascio niente al caso.

Cosa c’è dietro Il Sistema?

Lo sviluppo di questi ultimi tre anni parte dall’esigenza espressiva di aggredire lo spazio con la costruzione di vere e proprie strutture. Non è una conseguenza diretta delle mie pitture, però tra i due processi un nesso c’è. Prima dipingevo di più ma poi ho iniziato a sperimentare un nuovo tipo di formato, la terza dimensione e di materiale, il ferro, per soddisfare questa nuova esigenza. Il sistema è partendo dall’, l’idea, di utilizzare materiali da sempre mia vita, per poi includere il motivo per cui sono arrivati ​​​​​​a questo punto, grazie all’aiuto di persone, un di mie considerazioni filosofiche dove -letterarie e di posti dove vengo e adesso vivo: l’architettura fatta e finita di Milano e quella-da-letto incompiuta della Calabria.

Hai abbandonato le linee curve e sinuose della tua produzione pittorica per la rigidità brutalista del ferro.

Con Edoardo Totaro, l’antropologo che ha scritto i testi del mio libro e della mia mostra, abbiamo teorizzato l’antropologia del gesto della materia. Con queste opere propongo comunque un alfabeto, una continuazione della mia opera pittorica, ma in un modo super razionale e razionalista al tempo stesso.

Il brutalismo è una delle mie reference, ma c’è anche tanto incompiuto calabrese, con case e scheletri di palazzi incompiuti e pilastri che vanno il cielo. Enzo Mari diceva che “le case del Sud tendenti verso l’infinito”, una crescita in potenza dove si aspira all’assoluto con la confessione che un cambio del piano regolatore o qualche condono permetta di aggiungere un piano in più per sistemare il terzo figlio e poi, magari, anche il quarto (ride). È una dimensione quasi filosofica che ritrovo nelle mie sculture. L’ho capito tornando in Calabria, affacciandomi al balcone e vedendo le case davanti a me, queste strutture cubiche con pilastri protesi verso l’alto.

Non è quello che volevo riprodurre però, è un archetipo che ripropongo come se appartenesse ad una memoria collettiva scolpita nella nostra mente al punto di non aver bisogno di ricordarla. Nasce spontanea.

In un momento in cui moltissimi palazzi sono avvolti da ponteggi per il bonus del 110%…

Una coincidenza assurda. Prima del bonus, nei due anni precedenti la mostra, avevo usato le impalcature come teaser su Instagram, riconoscendole come un’ispirazione, qualcosa in cui mi rivedevo. Il mio feed ne era letteralmente invaso.

Un’altra referenza quindi…

Da un lato sì. Ci sono vari livelli di lettura. Se per strada vedevo qualcosa che mi colpiva, la rappresentavo condividendola e la cosa ha iniziato a diffondersi, la gente ha a taggarmi in foto di impalcature da il mondo, magari senza tutto perché. E quelle strutture di base sono lì, nessuno le notava prima. Siamo talmente impegnati che non ci soffermiamo più a pensare o vedere. Ora invece la gente mi dice che quando le vede pensa a me, è un carattere di universalità del messaggio. Le città sono tutte diverse per architettura, sociologia, antropologia, ma questo elemento temporaneo, comune a tutte, rende le strutture universali.Sembrano quasi nascondere un processo mistico in atto in quel momento: crescita, morte, cambiamento, qualcosa di magico.

Hai lavorato con Virgil Abloh, direttore artistico di Louis Vuitton e uno dei più grandi designer contemporanei scomparso lo scorso novembre. Come lui hai una connessione molto corta con lo zeitgeist estetico…

Considero sempre due livelli: quello del hic et nunc, contemporaneo, che osserva quello che succede, e quello archetipico, ancestrale, concettualmente eterno. Nelle mie strutture convivono entrambi, lo chiamo futuro antico. È quello che cerco di interpretare, non solo nei simboli o nei segni. Il qui ed ora riporta questo messaggio al quotidiano, al contemporaneo e può essere fluo, patinato o come meglio crediamo. Prendiamo ad esempio la croce. A livello archetipico è rappresentato da sempre, un simbolo comune a tutte le religioni, a tutti gli uomini. Nelle mie opere, il suo asse orizzontale è il nostro presente, la dimensione umana, quello verticale invece è il livello spirituale, che si eleva al cielo.

Al trascendente…

Esattamente. Il fulcro di quello che rappresenta nelle mie strutture ed il modo in cui approccio la mia vita: osservare immergendomi nel presente con una base che dialoghi in un linguaggio universale, in termini temporali appartenenti all’uomo.

A che punto sei oggi?

A livello concettuale nulla è cambiato, solo la forma. Ho sempre ricercato un segno assoluto, mettendo assieme l’alfabeto arabo, l’arte islamica, i gioielli del Nord Africa, i simboli della cabala ebraica, i kanji giapponesi, il piuttosto gotico del medioevo europeo, che l’hindi. Forse non lo troverò mai, è una ricerca continua dell’atemporale nel temporale, attraverso la sperimentazione e l’astrazione delle calligrafie.

Come nasce questa passione per un segno grafico significativo al punto di diventare impressionista?

L’influenza più grande è stata lo stadio, è lì che a tredici ho iniziato a lavorare sulle lettere, facendo i drappi da esporre durante le partite. Ho a studiare gli alfabeti gotici per poi arrivare alla calligrafia giapponese e frequentare un corso di grafica per avvicinarmi alla tipografia e allo studio dei caratteri. Nel 2009 ho iniziato a rapportarmi alla calligrafia in modo artistico iniziando ad astrarre i primi caratteri gotici, nei quali vedevo tratti arabeggianti e giapponesi. Nella rappresentazione sentivo di fare un sunto tra queste mie reference e di quello che ne deriva, una continua ricerca senza arrivare ad un punto. L’opera stessa era la ricerca.

Come convivono la tua attività artistica e la professione di designer? Penso al fregio per la casacca di Roger Federer nello spot di Barilla, un lavoro vicinissimo alla tua arte impiegato in ambito commerciale.

Non ho problemi a collaborare coi brand, non penso implicano superiori di livello. A quel punto vedo il lavoro come una sfida. Ho sempre cercato di tenere le due cose anche se alla fine è tutto marketing, tutto mercato, anche una mostra delle tue opere. Nel momento in cui dice “non lo faccio per soldi” è una falsità. Se poi decido di fare una mostra, investire senza vendere neanche un pezzo, è un’altra cosa, ma non voglio fare quello che dice “l’ho fatto senza ai soldi”.

Perché Axis Anime Armate?

Le mie strutture sono quasi antropomorfe, con tratti umani. Ho voluto usare la “anima” con un’accezione quasi corporea, come se fossero parole fatte sì di pelle ed ossa, ma anche di anima. Il titolo è un richiamo al cemento armato ma un invito soprattutto ad armare la propria anima, dotandosi degli strumenti per leggere ciò che ci succede intorno, crescere in maniera umana, personale, spirituale e verticale attraverso cultura, musica, viaggi. Armare l’anima vuol dire essere coscienti di cosa si sceglie, si vive, si decide. Lo puoi fare solo aprendoti, a livello mentale ed umano, ad accogliere l’altro, il diverso, in tutte le sue forme.

La spiritualità per te è molto importante…

Sì, nel nostro contemporaneo lavoriamo e viviamo in qualcosa che è totalmente materiale.

Come riesci a viverla in un mondo futile come quello della moda?

Non lo so, ma ci riesco. Lo spirito non può avere un ruolo meno importante della materia. Non possiamo limitare tutto al consumo, all’acquisto, al mangiare più che si può contemporaneo. Dobbiamo considerare tutta un’altra serie di fattori, soprattutto spirituali, magari meno tangibili ma al tempo stesso molto presenti e dei quali, troppo spesso, ci dimentichiamo.