Jeeg robot, Shochu e Awamori

Luca Rendina, founder di Bere Giapponese, e-commerce italiano di distillati nipponici, ha iniziato questo lavoro per colpa dei cartoni animati. “Sono del ’69, Goldrake è arrivato nell’aprile del 1978. Sono stati lui e Jeeg Robot a farmi innamorare del Giappone.”

Luca pratica meditazione zen da trent’anni e ha un gatto che si chiama Azuki (i fagioli rossi giapponesi, ndr); dopo alcuni anni da sommelier, e molti viaggi in Giappone, ha deciso raccontare i prodotti giapponesi ai romani.

Oggi parliamo di “shochu”, l’acquavite tradizionale del Giappone. Tutti conoscono i whisky o i gin giapponesi eppure là almeno un terzo della popolazione consuma abitualmente shochu, da solo o come accompagnamento durante i pasti; liscio oppure diluito con acqua fredda o calda.

“I giapponesi usano il termine “sake” per indicare qualsiasi bevanda alcolica; fuori dai confini nipponici però con questa parola viene comunemente indicato il nihonshu, il fermentato di riso. Lo shochu è tutt’altra cosa: è il distillato tradizionale del paese, un prodotto che può essere preparato distillando elementi diversi e che viene imbottigliato diluito a una gradazione di circa 25 gradi.”

In Italia poche persone lo conoscono e per iniziare a raccontare un prodotto del genere Luca ha deciso di trattarlo come tratteremmo un vino: come un prodotto agricolo, regionale e pronto ad accompagnare la tavola. Shochu e nihonshu sono prodotti legati ai territori che li generano e spesso accompagnano in maniera spontanea le cucine che sugli stessi territori insistono.

“Ho iniziato nel 2016 facendo degli eventi assieme a slowfood. Accostavo alcolici giapponesi alla cucina romana. In Giappone ci sono decine di regioni e prefetture con caratteristiche morfologiche diverse che danno vita a cucine e sake altrettanto diversi. Per esempio ci sono posti che potrebbero essere simili alla campagna viterbese, ci sono località montane dove al centro della gastronomia regionale c’è la cacciagione e ci sono le spiagge calde del sud.

Volevo che fosse chiaro che un prodotto del genere è complesso come è complesso il paese da cui proviene ma che non per questo deve spaventare o essere percepito come ermetico. Serve pazienza, servono gli assaggi e un po’ di curiosità. Trovato la giusta bottiglia non si torna più indietro. Uno shochu di patate può essere bevuto come un vermuth e uno più secco può diventare un elemento inedito per la mixology.

Andate a fare un giro su Bere Giapponese, sono anni che Luca seleziona piccoli produttori da tutto l’arcipelago. Troverete cose decisamente più interessanti delle corsie dei 7-eleven che vi hanno entusiasmato a Tokyo l’ultima volta.