Abbiamo chiesto ad un fermentatore di spiegarci qualcosa di più sulla Kombucha

Parlare di no/low non è semplice. Da un lato ci sono i mille pregiudizi culturali che vedono nell’analcolico una perdita di tempo; dall’altro ci sono dei prodotti complessi che vengono trattati come dei succhi di frutta. Da qualche parte però bisogna incominciare.

Volevamo parlare di kombucha, un tè fermentato e aromatizzato che negli anni è diventato uno dei cardini del movimento no/low. La storia sull’origine dell’alimento, come tutte le storie millenarie, ha assunto i tratti della leggenda. Stringendo molto: pare che un medico coreano di nome Kombu abbia curato un imperatore cinese moribondo con un elisir a base di tè. Tè in cinese si dice cha, Kombu-cha, il tè di Kombu. 

Jacopo Di Domenico è un fermentatore pirata con un passato ventennale in giro per l’Europa tra bar e ristoranti. Tornato in Liguria ha iniziato a costruire, un pezzo alla volta, un laboratorio dove fare ricerca intorno alle mille forme che frutta e verdura possono assumere. Ci sembrava la persona adatta a cui chiedere.  

“Ho scoperto il mondo della kombucha una decina di anni fa a Rotterdam da Dusty Bain, un ragazzo sudafricano che produceva kombucha e andava in giro per la città a farla assaggiare. 

Per capire qualcosa su questo prodotto bisogna partire da una sua caratteristica fondamentale: la kombucha è una bevanda viva e le cose vive hanno bisogno di cura.” 

In un dibattito sull’analcolico arretrato come quello italiano, dove se non si vuole una birra è probabile si riceva una coca-cola o un succo di frutta, crediamo che la kombucha possa rappresentare un ponte verso delle alternative più catchy e sfaccettate. 

“Una cosa viva è incompatibile con la produzione industriale e la grande distribuzione. Scaffali, magazzini e sbalzi termici non vanno d’accordo con i fermenti e un prodotto probiotico deve essere ancora vitale nel momento del consumo se vuole essere riconosciuto come tale. Stiamo parlando di una bevanda in cui l’artigianalità non è qualcosa di ulteriore o di accessorio, ma una condizione necessaria per la sua realizzazione. Un prodotto capace di esprimere terroir e stagionalità.

Il giusto fermentato analcolico può essere un pairing alternativo al vino nei ristoranti oppure un elemento interessante da usare in mixology. Sto lattofermentando proprio ora dei peperoncini. Saranno la base per una salsa che voglio provare in una variante del bloody mary.”

 Scegliamo cosa mangiare in base al gusto ma non sempre facciamo lo stesso con quello che beviamo. “Mi sembra si preferisca l’effetto alle volte. Beviamo per sballarci o perché ci piace quello che beviamo? Accettiamo l’analcolico nella sua veste peggiore. Beviamo con naturalezza roba industriale e piena di zuccheri mentre snobbiamo bevande fighe e capaci di fare bene all’organismo. In giro per il mondo miliardi di persone consumano abitualmente cibi fermentati nella consapevolezza che sono un toccasana. Basta iniziare.”

 Chiudiamo chiedendo a Jacopo qualche nome per approcciare la kombucha. Ci segnala tre produttori che gli sono piaciuti molto e che ha avuto modo di assaggiare lo scorso mese a Bologna da NO/LO, la prima fiera italiana dedicata all’analcolico. 

 

    FUNKY FERMENTERIA, realtà veneta di Giulia Faraon: piante di laguna e salinità. 

    PAO PAO KOMBUCHA, di Antonio Iemolo, per gli amanti degli agrumi, grande ricerca sulle varietà di tè. 

    SELVATICALAB, versante sud dell’Etna, perfetta rappresentazione di come, anche un analcolico, possa esprimere prepotentemente il terroir su cui insiste.