Conversation at Bar 8 – Michele Lupi

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Michele Lupi non si ferma mai. Che sia su uno sterrato, in sella ad una moto da enduro, in compagnia dei suoi amici – artisti, sportivi ed intellettuali di livello mondiale – o in qualche sperduto angolo del pianeta a realizzare uno dei suoi progetti creativi per il Gruppo Tod’s, la propensione al dinamismo lo ha portato a raccogliere una quantità di esperienze speciali tali da farne un eccezionale compagno di bevute per noi di Mr. Dee Still. Arrivato al Turbo, con nonchalance e cortesia assoluta, ci annuncia subito che a breve lo aspettano già altrove, ma invitalo a raccontare una bella storia e sorseggiare un buon drink e Michele Lupi ci consegna un pass all areas per quella wunderkammer frenetica che il suo quotidiano.

Ciao Michele, cosa bevi?
Un Mint Julep! È un drink classico, molto americano, letterario. L’ho scoperto leggendo Il grande Gatsby di Fitzgerald, quando Daisy ne prepara uno per Tom.
A Milano, all’epoca, non lo faceva praticamente nessuno e ordinarlo era un casino. Ci mettevano di tutto mentre invece deve essere il più semplice possibile, un po’ come il punk rock: acqua, ghiaccio pilé, menta fresca, zucchero bianco. Come bourbon uso il Maker’s Mark.

Te ne intendi…
Coi miei amici c’è una vera e propria ritualità del bere. Alcuni di loro sono grandi bevitori, io meno, ma mi piace bere bene. Mi ha colpito la storia che mi raccontava un amico architetto. Quando lo contattano nuovi potenziali clienti, soprattutto stranieri, spesso lo invitano a cena e, più che per le sue capacità o la sua bravura, lo valutano sulla base del feeling che si instaura e la sua virile capacità di bere.

Il classico “non ti fidare di chi non beve”.
Esatto.

Un tuo tratto distintivo è l’eclettismo degli interessi e la costante ricerca di stile e bellezza in tutto ciò che fai. Come nasce?
In famiglia. Mio padre è un art director e ha sempre avuto molta curiosità per i paesi esteri, soprattutto anglosassoni, per le cose un po’ fuori dalla sua comfort zone, le novità. L’altro giorno mi raccontava di quanto fosse difficile trovare riviste straniere quando aprì il suo studio a Milano, tra fine anni ‘60 e inizi ’70. Poi un tizio si è inventato un lavoro: la sera faceva il giro degli studi di architettura su una bicicletta con borse di tela piene di libri e riviste straniere. Mio padre e i suoi colleghi, sapendo del suo passaggio, lo aspettavano e si fermavano a bere una cosa, chiacchierando e sfogliando queste riviste di architettura e design. La grafica, in un certo senso, è partita da lì… Per me è proprio la cifra di essere curiosi sulle novità e quello che accade in campi diversi.

Lo si intuisce dal tuo Instagram.
È un modo per trovare cose curiose, un po’ fuori dal coro e dare un servizio a chi mi segue. Alla fine è un media che non deve parlare più di tanto di me, quanto di…

Di scelte?
È un tema fondamentale. Intervistando Giovanni Soldini, siamo amici dai tempi del liceo, gli chiesi del coraggio. Tutti gli domandano sempre cosa si provi a trovarsi in mezzo all’oceano, in situazioni rischiose, e lui mi rispose che in realtà il coraggio è scegliere. “Il vero coraggio l’ho avuto quando da ragazzo scelsi questa vita invece di diventare dottore o avvocato” – classico percorso per chi, come lui, arriva da una famiglia di Milano centro – “il coraggio è prendere delle decisioni e saper fare le scelte giuste. In mezzo ai ghiacci invece, in solitaria, è un piacere e basta”.

Von Clausewitz sarebbe d’accordo. Tu invece l’11 luglio 1982 a Londra, hai preferito i Clash a Italia-Germania.
Avevo 16 anni, ero lì per un corso estivo di inglese. Facevano due date consecutive alla Brixton Academy, la seconda proprio la sera della finale. Avevo zero soldi e il biglietto costava quattro sterline. Ho preso un hamburger da Wimpy, l’ho diviso in due, metà per il pranzo, l’altra per la cena, e col resto ho preso i biglietti. I Clash erano musicalmente essenziali e al tempo stesso molto visivi: come si vestivano, le proiezioni durante i concerti, le fotografie. Nell’81 fecero 17 date al Bond’s di New York, e chiesero a un writer, Futura 2000, di dipingergli lo sfondo del palco. Vollero gente come Grandmaster Flash ad aprire gli show e anche se i punk si incazzarono, per loro l’hip-hop era roba da discoteca, quei concerti avvicinarono la scena del South Bronx a quella punk di downtown New York, facilitando la nascita di band come i Beastie Boys, il mio secondo grande amore musicale.

Come nasce un progetto come Fay Archive?
Fay era una delle tante aziende americane che faceva giacche per pompieri. Quando i fratelli Della Valle l’hanno rilevata nell’85, è stato uno dei primi brand di workwear in Italia passati al casual. Man mano che il marchio si affermava ha però perso un po’ del suo DNA originale. Quando nel 2018 sono entrato in Tod’s ho proposto a Diego Della Valle di recuperarlo col progetto Fay Archive, il nome l’ho proposto perché gli archivi sono affascinanti…

Tu sei uno da archivio…
A me piace un casino l’archivio! Devo dire che oggi la parola ricorre un po’ ovunque nel mondo della moda. Negli archivi ritrovi il tuo DNA mentre a correre dietro alle mode si tende a sbandare, dimenticandosi delle proprie origini, perdendo identità. Un uomo di grande esperienza come Diego Della Valle fa la sua la sua cosa che la sinusoide della moda ogni tanto intercetta. Per le nostre campagne giriamo il mondo, testando le nostre giacche con lavoratori veri. Mi viene da ridere quando Diego mi dice: “Non prendere gente bella, noi siamo brutti, prendi gente vera. Non voglio che usiate un fotografo, fallo col telefonino”.

È difficile essere veri, anche nella qualità, quando il pubblico ha seri problemi a riconoscerla.
Ci si ferma un po’ troppo alla sola narrazione. Le aziende, grazie al digitale, si stanno trasformando in media company, capaci di produrre autonomamente contenuti editoriali e parlare direttamente con i propri clienti, saltando il passaggio azienda/media, che per me invece è fondamentale. Se parli di te stesso senza un terzo soggetto indipendente, diventi autoreferenziale, poco autorevole. Negli ultimi 15 anni ho fatto il direttore di riviste differenti, GQ, Icon, Rolling Stone, sono stati anni molto divertenti, ma quello che facevo è sempre stato molto più vicino a quello che faccio oggi nel gruppo Tod’s. Cercavamo storie che potessero essere interessanti per i lettori, da approfondire. Mi è sempre piaciuto molto raccontare e la curiosità è la base di tutto.
Sono molto legato al vintage, ma sto sempre attento a non cadere nel tepore delle “cucce” calde della nostalgia, che alla lunga è sterile. Sono contento di ciò che ascolto nella musica, che leggo nei libri, è la mia cultura, gli anni di formazione sono quello che ti resta, ma non devi avere la chiusura mentale di chi si ostina a pensare che le cose migliori siano solo quelle della propria gioventù. Il tempo passa e per me è fondamentale tenere un occhio su quanto succede adesso. Non è facile entrare in contatto con mondi più contemporanei, con generazioni più giovani, e comprenderli, ma se ci riesci, con interesse genuino, beh, devi dargli spazio, devi stare attento.

Dove ti senti a casa?
Sto pensando ad un libro a riguardo. Facendo il direttore di giornali ho viaggiato molto e mi sono ritrovato in posti, sia scrausi che lussuosi, in cui mi sono trovato bene, legati ad una storia, come quella della seconda copertina di Rolling Stone, con Valentino Rossi vestito da Elvis. Con Carlo Antonelli, mio socio ai tempi, avevamo pensato che in quel momento fosse lui la vera rockstar italiana. Valentino ed io siamo andati in macchina a Bologna a prendere Stefano Benni, autore del pezzo, e siamo finiti al passo del Furlo. Abbiamo mangiato molto bene ma il ricordo è legato alla storia di quella giornata, non al cibo. Rolling Stone è stata un’avventura totale. I primi giorni in redazione non avevamo neppure le sedie, ma il lancio è stato grosso, Carlo aveva delle belle idee. Mi mangio le mani per non aver tenuto un diario di quei due, tre anni lì, perché è successo veramente di tutto. Rileggerli adesso sarebbe divertente.
Ad ogni modo, a Tokyo c’è una libreria enorme, Tsutaya Books, dove trovi tutte le riviste del mondo. Al primo piano ha un bar molto elegante, dove puoi portarti le riviste dal piano di sotto, affondare in divani in pelle, e leggerle mentre camerieri in smoking ti portano whisky giapponese con ghiaccio e cose squisite da mangiare.
Poi, per fratellanza e comodità geografica, vado all’Elita Bar di Alioscia. Lui ed io siamo come fratelli, abbiamo condiviso un sacco di robe… e lì mi sento a casa. Quando ha inaugurato, saranno dieci anni ormai, era l’inizio della moda del Gin Tonic e Alioscia è sempre fuori moda, la anticipa e poi, quando smette di fare qualcosa, questa lo diventa. Fa parte del suo carattere, deve essere sempre un po’ contro, un po’ un bastian contrario, però, in realtà, è uno che ci tiene a far star bene la gente e dare qualità, non la roba che trovi di là, sul Naviglio.

Nel ’97 lo hai accompagnato con i Casino Royale ad aprire per gli U2.
È stato uno dei miei primi contatti con il mondo della moda. Un mio amico conosceva il distributore dei giubbotti Baracuta e gli ho spiegato che i Casino Royale avrebbero aperto il più grade concerto degli U2 di sempre, 160.000 persone. L’ho convinto a fargliene qualcuno con la scritta Casino Royale Benvenuto In Mia Casa Tour ricamata sopra, un omaggio ai Clash. Per il tour europeo del 1980, invece dei soliti pass al collo, avevano un Harrington con ricamati sopra una stella e la scritta The Clash 16 Tonnes Tour. Il giubbotto era il pass. Figo, no? Ad ogni modo, avevamo tutti il Baracuta ma io ero senza pass per il backstage. Per entrare mi sono nascosto sotto i sedili del van della band e, non so come, mi sono ritrovato sul palco dietro a Ferdi, il batterista. Il pubblico degli U2 non ne voleva sapere dei Casino Royale. Alioscia, o Michelino, mi dicevano: “All’inizio vedevo gente che faceva dei gesti con le mani, ma non capivo. Poi ho guardato meglio, ci facevano ‘Fuori dai coglioni!’” (ride).

Un’ultima domanda e ti lasciamo andare. Se tu potessi scegliere una vita totalmente diversa, chi vorresti essere?
Un designer di automobili, alla Marcello Gandini, un uomo curioso che nei disegni metteva le sue esperienze di vita. Dico alla Marcello Gandini, e non come, perché lui è un maestro, irraggiungibile.

Questione di scelte.
Esatto.