Conversation at Bar 2: Go Dugong

go dugong

Siamo al bancone del Turbo di Milano, un club che non necessita di presentazioni agli amici di Mr. Dee Still. L’inverno è arrivato a Milano e mentre aspettiamo Giulio Fonseca, l’artista che sta dietro il progetto Go Dugong, ci gustiamo un eccezionale Campari Shakerato. Tutti hanno parole di meraviglia e sorpresa per Meridies, l’ultimo album di Go Dugong, un viaggio musicale tra elettronica e profondo Sud. Ad un certo punto eccolo entrare, altissimo e stilosamente urbano con quel tocco di understatement come piace a noi. Ci sediamo al bancone ed iniziamo la nostra chiacchierata.

Ciao Giulio, cosa bevi?

Questa sera mi bevo un Manhattan, si sposa perfettamente con i miei gusti invernali. Mi piacciono i sapori torbati, con un po’ di legno, affumicati, mi ricordano il caminetto. Fossimo in estate andrei più su qualcosa di fresco, a base di gin, oppure classici come Mojito o Moscow Mule.

Qualcosa che faccia il suo lavoro

Esatto, d’estate cerco qualcosa che rinfreschi, mentre d’inverno mi piace proprio il calduccio, magari sorseggiando un buon bicchiere di whisky…

Sei uno da Islay quindi…

Sì, ma anche mezcal o tequila, quelle più affumicate o torbate…

Il tuo approccio ai distillati è analogo a quello dei tuoi live, non si possono non notare la ricerca e la scelta che fai. Mi ricorda molto quello di certi produttori degli anni ’60 e ’70, ad esempio Ted Templeman della Warner. Il suo motto era “se non puoi riprodurlo dal vivo non registrarlo”.

Assolutamente, quelli sono i produttori a cui mi ispiro, però per me il disco è una cosa, il live completamente un’altra. Nel disco non mi pongo nessun limite, per me sarebbe molto frustrante fare un disco pensando poi a come riproporlo dal vivo. Faccio sempre una fatica bestiale quando arriva il momento del live perché di solito nei miei dischi è come se ci fosse sempre un’orchestra di 30 musicisti che suonano cose completamente diverse.

E il pubblico come reagisce?

Il pubblico si gasa molto di più a sentire una cosa diversa, se la vuoi uguale c’è il disco. Secondo me è più bello, almeno… io mi gaserei di più a sentire un’artista che fa un concerto rivisitando il materiale a seconda del contesto in cui si esibisce. Se mi esibissi qui lo farei in un modo, in un club in un altro, in una sala da concerti in un altro modo ancora. Per me è molto mutevole anche a seconda delle situazioni, cerco sempre di studiare un live apposta. Poi, ovviamente, se suono in due situazioni simili propongo la stessa cosa, non è che per ogni location mi vado a studiare qualcosa di unico, diventerei pazzo… ma cerco sempre di avere un po’ di proposte differenzia, anche in base ai musicisti che sono a disposizione e che posso chiamare.

Ascoltando Meridies e riflettendo sulla poetica che gli sta dietro non ho potuto non pensare al lavoro di Alan Lomax…

Diego Carpitella e Alan Lomax sono due mie grandissime fonti di ispirazione. Quando ho iniziato ad andare a fondo mia ricerca ho detto “vediamo cosa c’è, scaviamo sempre più a fondo” e sono finito ad ascoltarmi proprio le loro registrazioni di esorcismi, di antichi rituali del meridione, per poi arrivare anche ad Ernesto De Martino, un altro antropologo che ha studiato molto il fenomeno del tarantismo ei rituali magici del Sud Italia. Sud e Magia, un suo libro, è stata una grande fonte di ispirazione per questa discoteca, ma anche La terra del rimorso, un altro suo saggio sul fenomeno del tarantismo tra Puglia, Lucania e Sicilia.

Il cuore centrale dell’album è una riscoperta del Meridione ma in chiave elevata, alta, non ovvia e scontata, esplorando e rivelando un patrimonio culturale e antropologico con un approccio competente e ricercato. Mi sono venute in mente le maschere ei costumi che hai elaborato nel tempo…

Per Meridies mi sono ispirato a certi costumi di Taranto, la mia città d’origine, che si usa per la processione della Settimana Santa. Si chiamano misteri, sono figure incappucciate con un cappello a tesa larga e un bastone che, scalze, seguono un percorso lungo tutta la città, camminando tutta la notte e portando le statue dei santi sulle spalle.

Chi ti ha colpito di più tra gli strumentisti con cui hai collaborato per Meridies?

Sono contentissimo di tutti, ma la collaborazione che mi ha stupito di più è stata sicuramente quella con Ricky Gardelli. Con lui ho fatto un pezzo, Corna di Serpente, proprio scritto assieme. Siamo partiti da una mia idea che abbiamo poi stravolto ed è uno dei miei preferiti sull’album. Ricky viene da un genere completamente differente rispetto al mio. Viene dal funk, dalla musica black, ma è anche molto ferrato sulla psichedelia e Meridies è molto psichedelico. È riuscito ad entrare nella dimensione folk dell’album, suonando il tamburo e il flauto ma con un’attitudine molto folk, molto ispirata appunto ai suoni e alle ritmiche della musica antica italiana. Da lui non me lo aspettavo, è entrato al 100% nel mood del disco e quindi siamo finiti a registrare assieme per tre giorni, buttando giù molte altre tracce di chitarra, tamburi, flauto traverso, sintetizzatori. Tutto suonato da lui!

Un’evoluzione impressionante rispetto a Novanta, che è molto black…

Sono cresciuto a Piacenza, una città in cui non esiste nessuna contaminazione. Novanta è un album nato quando mi sono trasferito a Milano. Prendevo sempre la circolare 90 in mezzo a gente dal Nord Africa, Sud America, Est Europa, c’era di tutto. La 90 è un’esperienza e la prendevo per andare al mercato di Piazzale Cuoco la domenica mattina per comprare dischi. Lì c’erano le mie bancarelle di fiducia. Arrivando dalla provincia, Milano mi sembrava New York e sono rimasto affascinato da questo incontro di culture e di etnie diverse che si ritrovano sulla 90 e quindi ho voluto fare un disco in cui si respirasse quell’atmosfera. Quando andavo in piazzale Cuoco prendevo dischi provenienti da parti del mondo diverse e mi sono creato una sorta di libreria di micro sample, ho iniziato a mischiarli tra di loro e nei pezzi quindi senti sample di musica dub con musica africana, mediorientale… lì in mezzo c’è proprio di tutto.

In Book dei Beastie Boys, Adam Horovitz racconta di come lui, in ogni città visiti, cerchi sempre i negozi di dischi usati in una ricerca costante di nuovi sample, una vera e propria ossessione… anche per te è così?

Un tempo sì, ora non più.

Sono arrivati al punto di registrare un intero album in cui usavano sample immaginari che avevano scritto e suonato loro stessi, un po’ come hai fatto tu in Meridies…

Sì, anche per un discorso etico. Vengo da un approccio molto hip-hop, campionavo senza vergogna, non me ne fregava niente, se una cosa mi piaceva la campionavo. Adesso ho cambiato completamente approccio e anzi, mi diverto molto di più ad essere in studio con dei musicisti creando delle cose da zero, facendo ricerca…

Un altro modo di rifiutare l’appropriazione culturale…

Quella è una consapevolezza che è cresciuta col tempo. Agli inizi, quando mi sono approcciato a musica di altre culture, non ci avevo pensato. Per me la musica era universale e quindi mi dicevo “non c’è niente di male se mi piace questo pezzo di una musica e lo uso come sample in un mio brano”. Sono convinto non ci sia niente di sbagliato, ma per farlo devi sapere da dove proviene la musica che stai campionando ed è giusto che, se la prendi da lì, tu riconosca i crediti ai musicisti che hanno suonato e scritto la musica del sample, stando attento nel capire la storia e la cultura da cui proviene quello che stai campionando. Tutto giusto ma molto complicato. Comporta una ricerca molto, molto approfondita, rischi di prendere cose che magari per una cultura sono sacre, con un significato profondo, magari musiche di rituali religiosi che tu invece useresti solo perché suonano bene. Non puoi prendere un pezzo di musica sacra e metterci sotto una cassa dritta. Sbagliando si impara, ma non mi pento di quello che ho fatto. È un’evoluzione. Se non avessi fatto certe cose oggi non sarei così sensibile su certi temi. Dopo l’esperienza in India, volevo fare il secondo volume andando in Marocco. Sono stato lì tre settimane e le ho prese, quasi letteralmente. La gente non mi ha concesso di registrare tutto come era successo in India. Ho incontrato nomadi berberi che mi dicevano “Spegni, no! Tu non prendi la mia musica per farci il cavolo che vuoi. Cosa ne so io di cosa ci fai? Tu così mi rubi l’anima”.

Chiudiamo tornando ai Popol Vuh, il collettivo musicale guidato da Florian Fricke che ha musicato la gran parte dei film di Werner Herzog, un’influenza da intendetori. Ci sono altri artisti nella scena che li apprezzano?

No, solo chi ascolta un certo tipo di psichedelia. Io li ho conosciuti proprio tramite i film di Herzog, Fitzcarraldo è uno dei miei film preferiti. Tra l’altro, proprio per collegarsi a Meridies, secondo me all’epoca hanno usato proprio dei tenores sardi, anche qualcosa di musica folk della Sardegna. Io ad esempio ho campionato delle launeddas sarde di Aurelio Porcu. Quelle, pur provandoci, proprio non sono riuscito a riprodurle…