Conversation at Bar 1: Francesco Bacci

Conversation at Bar 1: Francesco Bacci

Siamo nel centro storico di Genova, viuzze strette, i famosi caruggi e, dalla cattedrale di San Lorenzo, imbocchiamo in discesa quella via di Scurreria che tuffandosi verso piazza Campetto ci proietta davanti al cinquecentesco Palazzo Imperiale.
Entriamo, nella penombra tipica che non libera mai i suoi saloni, per salire al piano nobile, dove troviamo il Les Rouges, uno dei locali migliori e più suggestivi della città. Tra volte affrescate e ambienti di un calore inedito per una città scontrosa come Genova, ci troviamo al bancone con Francesco Bacci, chitarrista degli eroi cittadini Ex-Otago, architetto e oggi, fresco di lockdown, anche artista elettronico sotto lo pseudonimo di LowTopic.

Cosa bevi?

“Ultimamente mi è presa una fissa incredibile, totalmente inaspettata, per il Bloody Mary. È un drink un po’ vintage, non va tanto di moda perché è più da aperitivo. Se lo bevi dopo cena ti da una botta piuttosto fastidiosa. Due settimane fa ne ho bevuto uno proprio qui, clamoroso, mi sono messo a piangere, tanto che mi sono comprato tutti gli ingredienti e ho provato a farmelo a casa. Ovviamente faceva cagare.”

Come hai iniziato a berlo?

“Il classico consiglio del vecchio saggio. Ero a farmi un aperitivo con due professori con cui ho collaborato, gente oltre la cinquantina. “Cosa bevete?” e loro “Un Bloody Mary”. A quel punto ho detto “anch’io…”, a dire “birretta” mi sarei sentito clamorosamente sfigato, e mentre lo bevevo mi dicevo “ma allora questi vecchi saggi ne sanno”.
Bloody Mary a parte, assieme a birra e vino solo gli amari non mi stufano mai. Una buona cena per me finisce sempre con un amaro, preferibilmente Camatti o Santa Maria. Un paio di anni fa la mia compagna ed io abbiamo svoltato con un drink che abbiamo inventato in Piazza Lavagna, qui dietro. D’estate, prima di diventare genitori, stavamo sempre fuori, quando le serate erano infinite, e bere tutta la sera pesa, allora “cosa bevi, cosa non bevi” ci siamo inventati il Camatti Washington – Camatti, acqua frizzante e foglie di menta – in onore di Kamasi Washington, il sassofonista. Se lo fai a casa non rischi di fare un casino.”

Parliamo del tuo ingresso nella musica elettronica. La scorsa estate hai fatto alcuni dj set per Electro Park, un’associazione che unisce installazioni luminose alla musica, unendo due aspetti fondamentali della tua quotidianità, musica e architettura. Nasce prima Francesco che fa dj set o il musicista elettronico?

“Nasce prima Francesco che fa dj set, ma in modo inconsapevole, senza interesse o dedizione. Ho improvvisato la mia festa di laurea in un baretto e quando mi hanno chiesto “chi mette la musica?” ho risposto “io”. Ho scaricato Virtual DJ, senza neanche controller e spostare il fader, e ho trovato la cosa molto divertente. Ma non mi definirei un dj. Ho troppo rispetto per il ruolo, per la sapienza dei dj, per me è come se stessero su un altare. Prima di potermi definire dj ne ho di cose da studiare. Alla musica elettronica invece mi ci sono avvicinato dallo studio, interessandomi alla produzione. Da musicista ero più intrigato dall’essere uno scrittore di musica, nella sua infinita semplicità, come nel caso di una scala semplice, di poche note, di ritmi semplici. Non dico “compositore” perché mi sembra eccessivamente autocelebrativo e pomposo, no? ”

Come architetto hai tenuto una conferenza sulla ristrutturazione di uno storico edificio genovese del ‘900, il Palasport. Come vedi questo rinnovo di Genova che, per qualche misteriosa congiunzione astrale, arriva non solo dal “basso”, con una scena musicale in fermento e realtà molto attive come appunto Electro Park e l’etichetta Pioggia Rossa, ma anche dall’alto, con l’avvio dei lavori per il Waterfront di Levante, la ristrutturazione del Silos Hennebique e il nuovo museo dell’Immigrazione?

“Come con tutte le cose osservate da molto vicino è impossibile prendere una posizione definita. Conservano un’ambiguità per la mancanza di prospettiva e, quando una cosa è indefinibile, è più facile lamentarsene – una cosa che i genovesi conoscono molto bene – che rilanciare, proporre. Una cosa faticosissima. C’è indubbiamente un fermento che, da genovesi, bisognerebbe riconoscere, coltivare e supportare perché solo così si può sperare che questa pigrizia si esaurisca. Certo non si può pretendere che Genova dopodomani sia come San Francisco, però non possiamo neanche vivere convinti di essere sempre gli ultimi degli stronzi. Perché le cose belle accadono e spesso. Chi lo nega lo fa perché non ha voglia di partecipare. Si, è difficile: ti devi spostare, fa freddo, devi andare a Sampierdarena, c’è coda, devi andare a Quinto, ma nelle città funziona così. Se lo neghiamo forse allora è colpa nostra se questa città è pigra. Le realtà comunque sono tante. Parto dall’architettura. Ho fatto parte del comitato scientifico di Maledetti Architetti, un’intenzione brillante del Comune di Genova, dove si è detto “facciamo finta di organizzare una giornata dei Rolli, però sul ‘900 genovese, perché c’è un patrimonio…”

Un esempio di propositività è il tuo ep Maria, che hai pubblicato da poco sotto il nome di LowTopic… cosa ti ha spinto a passare da comporre per una band a qualcosa di solitario come l’elettronica.

“Guarda, è stato tutto estremamente casuale. Ho sempre voluto fare un disco da solo e ho sempre desiderato fare qualcosa di post rock, ne ero ossessionato. Agli Otaghi ho fatto una testa così col post rock, è ho iniziato a scrivere un sacco di cose proprio mentre usciva Marassi, nel 2015. Ho iniziato a confrontarmi con la scrittura individuale e strumentale, confrontandomi con i limiti dello scrivere da solo: limiti creativi, mentali e di mezzi fisici, con chitarra, computer e poco altro. Ho iniziato ad entrare nel trip dei sintetizzatori, drum machine, queste cose qua e piano piano la chitarra è uscita dalle mie produzioni e sono entrati i synth. Cercavo le melodie post rock nei brani di musica elettronica e ho iniziato a trovarle in alcune cose di techno melodica, e la pandemia mi ha consentito di impiegare del tempo, che non ho mai avuto prima, per approfondire quel discorso, nel senso di produrlo dalla A alla Z. Ho sempre scritto tanto, mille bozze dicendo “poi ci penserò” oppure “qualcuno me le metterà a posto”. Ma quando siamo stati tutti a casa per dei mesi ho detto “No, no, adesso ci penso. Basta. Adesso ci penso e imparo a farlo come se non dovessi dipendere da nessuno.”

C’è chi nel lockdown ha imparato a fare la pizza e chi a produrre musica elettronica…

“Esatto (ride). In realtà ho avuto un supporto gigante da Emilio Pozzolini, ex Port Royale, un ninja e un maestro sopraffino. Mi ha aiutato ad affinare questa cosa. Chiaramente, c’è stato l’effetto “l’appetito vien mangiando”, vedi le tracce che cominciano a suonare bene, che non sono più soltanto delle idee, e allora inizi ad entusiasmarti sempre di più. Questo entusiasmo è stato alimentato, e al tempo stesso messo in discussione, dall’attesa della bambina. Io volevo fare questo, questo e quest’altro, ma nel frattempo nasceva mia figlia…”

Attualmente in Italia, da parte degli artisti, c’è un approccio più consapevole e personale alla produzione, dicono molto più la loro rispetto ad un tempo. Oggi fate un disco con questo o quel produttore perché volete che lui faccia un lavoro di un certo tipo con la vostra musica, mentre un tempo il ruolo del produttore era quello del manipolatore artistico che trattava l’artista come un burattino di cui decideva ogni passo. Perché in un momento del genere, in cui con la tua band potresti fare quello che vuoi, decidi invece di fare un disco solista?

“In questo momento siamo fermi per scelta, con tutti i rischi del caso, con denari che non entrano e occasioni che si sprecano, fino a quando non avremo di nuovo voglia di fare qualcosa. Ci siamo detti “abbiamo bisogno di un po’ di pausa, perché ci fa bene umanamente e ce la prendiamo”.

Quindi la vostra pausa è una pausa diffusa?

“Si, diciamo che si sono sommate… ci sono tanti dettagli complessi, anche umanamente. C’è una metafora che trovo calzante in questo caso, è come se per dieci anni fossimo stati su un treno che è andato velocissimissimo, per nostro volere e per caso. Abbiamo sempre creduto tantissimo in quello che facevamo, tanto da metterlo come priorità assoluta delle nostre vite, anche quando queste non erano più composte unicamente da quello, ma da lavori paralleli, famiglie che si espandevano o si contraevano, cose che accadono agli esseri umani, no? E per dieci anni abbiamo messo la collettività davanti a tutti, davanti a tutto, anche davanti al tempo stesso. E poi, fortunosamente, le cose sono cambiate in meglio, più di quanto potessimo anche solo pronosticare. Anni fa non avrei neanche potuto sognare di suonare in un palazzetto e invece lo abbiamo fatto e bacio per terra ogni giorno che ci penso. Ad un certo punto però il treno si è fermato contro la nostra volontà, il mondo è finito, tutti in casa. Dopo che sei andato a centomila non puoi neanche permetterti di ipotizzare di scendere, non guardi neanche fuori dai finestrini, vai, devi andare sennò muori. Il treno si è fermato e abbiamo guardato un po’ tutti fuori dal finestrino e abbiamo detto “ah, ma… aspetta un po’… dove cazzo siamo? Perché? Cosa ci faccio qua? Perché non mi faccio un attimo una passeggiata? Abbiamo reagito più o meno tutti così, chi più chi meno, chi in modo più aggressivo, chi più ritirato, ma di fatto tutti così.”

Quando le cose torneranno alla normalità, tu cosa farai? Guarderai ancora fuori o di nuovo solo dentro?

“Tutte e due le cose. È una cosa comune, non c’è niente di strano. Una band è semplicemente più esposta, mediaticamente, al proprio pubblico che si chiede “ah, che strano, cosa succede?”. Non c’è niente di strano. È successo quello che è successo a tutti, e non c’è niente di particolare nelle nostre vite che non sia successo ad altri, sono solo più evidenti. Io, per dirla proprio male, ho avuto il bisogno forte di farmi i cazzi miei, di esplorare una cosa che poi è stata la molla per diventare produttore: la paura, giustificata o ingiustificata, di come sarebbe stata la mia vita con il mondo che si è fermato e con la nascita di mia figlia. Ho sempre avuto questa doppia identità, semi aspirante accademico, dottore di ricerca in università, e musicista. E questi due binari paralleli convivevano felicemente in me. Con il lockdown, entrambe queste cose si sono disintegrate, dimostrando tutta la loro fragilità, e ho smesso di farle entrambe. Mi sono chiesto invece cosa avrei potuto e saputo fare da solo. Ho sempre sognato di fare il musicista ma non mi ero mai concesso il privilegio di studiare alcune cose come la composizione, la musica fatta al computer, i sintetizzatori, come sono fatti e perché si usano in un certo modo, come si programmano, come possono diventare un mezzo per la mia espressione.”

Con tutti questi discorsi mi sono dimenticato di chiederti cosa ti ha colpito del bloody mary, dai racconta un po’…

“Sono un grande fan del piccante in generale, mio nonno che era toscano e metteva il pepe ovunque, anche sulle ciliegie. Io ci metterei il peperoncino, per me la piccantezza è già una qualità da 10. E poi sono un fanatico del pomodoro, se finissi su di un’isola deserta mi porterei la pasta al sugo e la pizza margherita e poi dopo la caprese e, dato che non si possono fare cocktail con la mozzarella, resto sul bloody mary. Mi piacciono le atmosfere che evoca, d’altri tempi, un po’ da voyeur, un po’ da vecchio saggio che da una botta di vita e di stile alla vita con l’aperitivo del suo sabato sera. Però in totale understatement, un approccio a cui tengo moltissimo. Non è un cocktail fighetto come il Manhattan, è più working class e quindi, per me, più seducente.”