Viaggio in Borgogna
Durante il mio breve soggiorno tra le campagne della Savoia, si faceva un grande parlare di quei vini fini e poco colorati della Borgogna. Non riuscivo a capire fino in fondo, un giovane inglese saltò fuori anche con Camillo Benso Conte di Cavour e un suo scritto che li confrontava con i vini del Piemonte. Ma la storia in Borgogna è ben diversa e ben più antica.
L’areale consta di 562 Premier Cru e 33 Grand Cru, i punti più alti della piramide qualitativa, che rappresentano appena il 10% e il 2% della produzione dell’intera regione. La produzione è parcellizzata, poche bottiglie, e che ben definiscono quello che qui viene chiamato il “goût du terroir” di un luogo specifico a cui fanno da contraltare invece qui vini classificati come Bourgogne o Village. Assemblaggi di appezzamenti di più territori o di più vigneti di uno stesso villaggio.
In qualche ora mi ritrovo a camminare in un’iconica via di Beaune, rue des Tonneliers, un simbolo della produzione e della commercializzazione dei vini. Sopra una piccola porta, una scritta: Regnard 1449. Entro nel cortile, la struttura è imponente, le cantine interrate sono colme di barrique; si vede la prospettiva delle volte accovacciandosi a terra sul pavimento acciottolato. Assaggio una Riserva, un 100% chardonnay. Un grande bianco di corpo, elegante, dai sapori nocciolati. Al bistrot, mi unisco a una coppia di gitani, tra un discorso e l’altro – sarà per l’alcol già in corpo – mi ritrovo ad offrirgli un “Les Sétilles” di Olivier Leflaive, una delle più grandi cantine e nomi di Borgogna che vede l’inizio della sua storia dopo la prima guerra mondiale, da sempre a conduzione familiare. Un altro chardonnay – meglio non allontanarsi troppo dal vino scelto in precedenza. “Questo è prodotto in sessanta parcelle tra Puligny e Montrachet” – dirà il cameriere. Si sente il passaggio in legno, la stoffa del vino è tattilmente viscosa. Una goduria questa avvolgenza.
Freschezza, dinamicità, eleganza: il Pinot noir di Borgogna
Era così buono il bianco, che scelgo di approfondire anche le produzioni dei rossi, la cuvée Margot di Olivier è esattamente quella rappresentazione di elasticità e di una volontà d’animo liberista, essendo essa un’unione di uve della Côte de Beaune, da Puligny-Montrachet a Pernand-Vergelesses e vecchi vitigni delle Hautes Côtes. Puro, sul frutto, leggermente speziato e di grande fragranza. Un vino dedicato alla prima figlia.
Marciando sulla D974, mi affaccio al Clos Vougeot, il Domaine Faively è tra quelli che vanta un accesso diretto, da una cancellata. La Casa, del 1860, ancora oggi è in mano alla settima generazione, che punta in primis sui propri clos in monopole e ad omaggiare il capostipite, Joseph Faiveley, dedicandogli una intera linea di prodotti. Da un blend dei pinot noir raccolti nei 127 ettari di proprietà certificati H.V.E. livello 3 dal 2019, nasce un sorso di grande impatto, equilibrato, morbido ma agilissimo. Adatto sempre. Finisco il mio bicchiere ordinato a La Cabotte, l’ambiente è rustico ma questa cucina locale così saporita so già che mi mancherà.